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Fausto Coppi e Gino Bartali, lo scambio di borraccia al Tour de France del 1952
Roma, 2 gennaio 2020 - Sessanta anni fa, il 2 gennaio 1960, l’Airone richiuse le ali. La morte improvvisa di Fausto Coppi, il Campionissimo, fu uno choc tremendo per l’Italia della ricostruzione: in lui un popolo aveva visto il simbolo di una rinascita collettiva. Io sono nato dopo l’addio dell’Eroe, ma ho avuto la fortuna, dal 1979 in poi e per vent’anni, di conoscere Gino Bartali. L’alter ego. L’Ettore di quell’Achille in bicicletta.
Il modo in cui Ginettaccio ricordava Fausto mi ha sempre colpito: un misto di affetto e nostalgia, pur nella rivendicazione di una 'parità' che tanti, invece, si ostinavano a negare. Perché, con la morte prematura, Coppi era stato consegnato al Mito e chi restava quaggiù passava fatalmente in secondo piano. E allora eccole qua, le memorie di Bartali, recuperate tra fogli e appunti sparsi.
"Ah, Fausto! Dal giorno del suo congedo mi fu subito chiara una cosa: guardando me, la gente avrebbe pensato a lui. Eravamo diversissimi ma come gemelli nella sensibilità popolare. Eravamo avversari, ma ci volevamo bene...". "Poi, certo, la rivalità è stata anche tremenda! Nel 1946 i corridori italiani per le sanzioni post guerra non potevano ancora gareggiare all’estero, eravamo ammessi solo nella Svizzera neutrale. Così io e Fausto ci iscriviamo al campionato di Zurigo e una volta lì vediamo la miseria degli immigrati, i nostri compatrioti che erano andati oltre frontiera per guadagnarsi da vivere e campavano in condizioni umilianti...". "Io e lui ci guardammo negli occhi e ci accordammo: dobbiamo dare una gioia a questa gente, fare in modo che senta l’orgoglio dell’essere italiani. Corremmo da alleati, staccammo tutti, i nostri connazionali piangevano ai lati della strada, erano felici. Poi naturalmente noi due litigammo in volata, ma quella era la nostra natura, cane e gatto...".
"Lo avevo conosciuto per strada, in allenamento, sul finire degli anni Trenta. Stavo pedalando dalle sue parti. Io avevo già vinto Giro e Tour, mi si affianca un ragazzo magro magro e mi fa: signor Bartali, posso avere l’onore di stare in sua compagnia per qualche chilometro? Andò a finire che rimase con me per ore e non si staccò mai. Ai saluti gli chiesi: come ti chiami? E lui, timido: Coppi, Fausto Coppi...". "So che sembra un film eppure è tutto vero. Così come è vero che tra i due io sono quello che ha aiutato di più l’altro, lui era un grandissimo ma un po’ mi soffriva, ci siamo fatti i dispetti ma ci siamo rispettati...".
"Ad esempio, io non l’ho mai giudicato per la storia della Dama Bianca. Cattolico come sono, può immaginare quante volte, in quella Italia là, vescovi e preti mi sollecitarono a dire una parola contro di lui. Non l’ho mai fatto e Fausto me ne fu grato, quando dalla relazione con la signora Occhini nacque un figlio lui si precipitò in camera mia, per evitare guai con la legge: il bimbo era venuto al mondo in Sud America e Coppi aveva ricevuto una telefoto dal pargolo. Me lo mostrò e mi disse: guarda, è il mio Faustino. Aveva le lacrime agli occhi...".
"Era un uomo complicato, ricco e adorato ma non era felice. Alla fine gli pesava la sua situazione privata, mi aveva chiesto di combinargli un incontro con il vescovo Montini, il futuro Paolo VI. Dovevamo vederci a gennaio del 1960, arrivò prima la malaria e non seppi mai che intenzioni avesse per il futuro...".
"C’erano tante differenze, ma non sulla politica, sebbene i comunisti lo contrapponessero a me perché io ero uno di Chiesa. Ma Togliatti, il segretario del Pci, era un mio tifoso, per dire. E Fausto votava anche lui per la Dc, tant’è vero che firmammo assieme un appello a favore di Alcide De Gasperi. Solo che a sinistra preferivano far finta di non accorgersene...".
"Io sono credente e non ho mai dubitato che Fausto lo rivedrò, nella Luce del Signore. Quando me lo troverò davanti, sono sicuro che mi darà ragione. I Campionissimi erano due, Coppi e Bartali e a me è toccato vivere anche un po’ per lui, guardavano Gino e pensavano a Fausto...".